Rubinstein, dunque, affondava decisamente il braccio destro con tutto il suo peso sulla delicata melodia ciajkowskjiana, mentre le sue dita si alzavano lente per scattare veloci verso il basso a percuotere il tasto. E il braccio sinistro? E la mano sinistra? Altra storia. Sospeso il braccio; le dita, sfiorando dolci e delicate la tastiera, creavano un suono che si amalgamava in modo perfetto con quello armonioso e sussurrato sommessamente dagli archi. 

Dunque: due braccia e due mani che producano suoni di differente volume, tanto differente da creare l’illusione che gli strumenti che stiamo ascoltando sono due. È una condizione indispensabile, se si vuole ottenere la profondità di campo, la stereofonia; è il punto di partenza irrinunciabile se si vuole i progettare un’architettura sonora di quantità diverse che serviranno per dare al suono la qualità che cerchiamo. Dirò di più. Spesso la struttura di un pezzo pianistico è talmente complessa che due piani sonori non bastano a soddisfarla; quindi anche le mani, a volte anche le singole dita, sono chiamate in causa per dare il loro contributo creando le differenze sonore necessarie. Basta pensare a quello che succede in una fuga a 4 o 5 voci dal Clavicembalo ben temperato di Bach, per rendersene conto. Ma procediamo con ordine, iniziando dalle cose più semplici e dividendo l’analisi sotto due titoli, in ognuno dei quali figurino le risposte alle seguenti domande:

1 – Quando intervenire?

2 – Dove intervenire?

3 – Come intervenire?


TITOLO PRIMO - ANALISI VERTICALE (due o più suoni allineati verticalmente).

Risposte:

1 – Sempre!

2 – Dove sia evidente – per importanza tematica, armonica, espressiva - la necessaria preminenza di un suono rispetto agli altri.

3 – Con meccanismi tecnici di tipologia diversa, quali:

     a) – Uso del peso controllato in un braccio.

     b) – Uso della sospensione nell’altro. 

L’esempio che segue è dedicato a quanti - fra i giovani che mi leggono - non abbiano ancora sufficiente dimestichezza con l’uso contemporaneo di tecniche diverse. Realizzare in modo progressivo il crescendo scritto alla mano destra:

Usare il proprio orecchio per controllare e memorizzare ogni cambiamento sonoro cercando quello che giudicherete giusto, ottimale.
Quindi si può invertire il crescendo, spostandolo al braccio sinistro, mentre il destro farà il pianissimo (pp).
Questo esercizio, all’apparenza banale, è basilare per capire quanto verrà dopo.

Ipotizziamo ora di dover effettuare la stessa cosa con una sola mano. Se si tratta di un bicordo il problema è abbastanza facile: far ruotare leggermente l’avambraccio verso destra, caricando del peso la parte esterna della mano, e la nota superiore suonerà più forte. Naturalmente, ruotando verso sinistra si otterrà l’effetto opposto.

Come agire se i suoni sono tre e vogliamo accentarne solo uno, come si vede nell’esempio che segue? 

Forse cento e più volte avrò visto i miei ragazzi impazzire cercando, senza trovarlo, il modo di realizzare passaggi di questo tipo in brani di repertorio. Impazzivo anch’io! A me riusciva facile, forse l’avevo imparato da piccolo senza neanche farci caso, ma come fare per insegnarlo? Infine mi riuscì di trovare un sistema ingegnoso che risultò infallibile.

Ve lo svelo? D’accordo, eccolo qua:

  1. Occorre, prima di tutto, abbassare il coperchio del pianoforte (l’attenzione alla ricerca del suono ed il ritorno del tasto impediscono di concentrarsi come si deve sui movimenti esatti che dovranno compiere il braccio e la mano).

  2. Provare ad eseguire (sul coperchio) il primo di questi accordi, avendo cura di farlo con l’avambraccio tenendo le dita ferme nella posizione accordale e ripeterlo, anche più volte, fino ad acquisire la scioltezza necessaria.

  3. Eseguire l’accordo rimanendo attaccati al coperchio per qualche secondo. Quindi provare a sollevare lentamente e leggermente la mano dal coperchio in modo tale che il dito relativo alla nota accentata dell'accordo rimanga incollato al coperchio mentre le altre si sollevino leggermente. Ripetere il tutto fino ad ottenere scioltezza.
  4. Quando si sarà ben sicuri di aver memorizzato esattamente la "forma della mano" (con un dito incollato al coperchio e le altre leggermente sollevate come al punto 3) aprire il coperchio e provare ad eseguire l’accordo sulla tastiera tenendo la mano e le dita nella posizione memorizzata; se saranno stati seguiti esattamente i passaggi dei punti 1, 2 e 3, il dito che avevate costretto a rimanere più in basso, incollato al coperchio, suonerà più forte degli altri.

  5. A questo punto ripetere l’esperimento per tutte le dita dell'accordo e il gioco è fatto. 

La spiegazione razionale è la seguente: il dito che agisce per primo sul tasto produce un suono più rotondo e pastoso rispetto alle altre dita, che giungono una frazione di secondo più tardi; il lieve arpeggiato che ne risulta è del tutto impercettibile.

Esercitarsi con cura sul meccanismo del diverso posizionamento delle dita nelle situazioni accordali va inteso solo come un punto di partenza.
Poiché il cervello è in grado di memorizzare qualsiasi cosa gli venga proposta, in seguito il fatto finirà per assumere un proprio automatismo: basterà individuare il suono che si decide di porre in risalto e la mano farà tutto da sola.

TITOLO SECONDO - ANALISI ORIZZONTALE (Due o più suoni in successione). 

Valgono le stesse risposte elencate al Titolo primo, anche se qui il discorso si fa più complesso dal punto di vista espressivo.

Infatti, oltre alla preminenza di un singolo suono rispetto agli altri, è necessario creare una serie di differenze tra i suoni preminenti, al fine di rendere comprensibile e – soprattutto - espressivo il discorso musicale. Questo non lo si fa così, a caso, ma seguendo regole ben precise dettate da una sintassi musicale, molto spesso ignorata o disattesa. Una sintassi sviluppatasi nel corso di secoli, durante i quali la Musica non è mai stata considerata un’Arte “autonoma” ma asservita - solo e sempre - ad un testo.

Si sa per certo (ce lo dice la Storia, anche se manchiamo di documenti cartacei) che al tempo di Sofocle, Eschilo ed Euripide, il Coro interveniva nella Tragedia cantando. Poi vennero: il canto gregoriano, i contrappuntisti, i Minnesänger ed i trovieri e si arrivò, finalmente, a Gesualdo da Venosa, Luca Marenzio e Claudio Monteverdi. Si deve proprio a questi ultimi tre l’idea di riconsiderare la Musica anche come un fenomeno “espressivo”, dopo che la scuola fiamminga, evolvendo il contrappunto ai massimi livelli, l’aveva in pratica trasformata in “scienza esatta”.
Nel frattempo, testo e musica avevano progredito in stretta simbiosi, nell'ambito della quale uno dei parametri basilari era la precisa corrispondenza tra gli accenti del testo e quelli musicali. Per rendere chiaro il concetto proviamo a ragionare per assurdo - come si usa fare nella geometria razionale - e per un attimo immaginiamo che un autore dell’epoca, musicando le parole “che dici”, lo avesse fatto nel modo seguente: 


Anche un bambino si sarebbe accorto che c’era uno sbaglio; andava scritto: 


Perché? La risposta è semplice. In ogni frase, oltre agli accenti delle singole parole, ne esiste un altro (accento tonico) che corrisponde alla sillaba acme della frase (in poesia si chiama accento metrico e cade sulla penultima sillaba del verso, in genere). Nell’esempio riportato è evidente che l’accento tonico del testo cade sulla sillaba centrale "di" e dovrà dunque combaciare con un tempo forte della misura; ma questo non può essere che il primo – ce l’insegna la teoria musicale – e non il secondo, come erroneamente scritto dal nostro ipotetico autore. A voler andare per il sottile, sarebbe stato meglio cambiare l’ultimo suono, sostituendolo con uno che andasse verso l’alto, magari così:

Questo per sottolineare la presenza del punto interrogativo che, nella lingua parlata, si evidenzia appunto con un’inflessione del tono di voce verso l’alto.

Ma la simbiosi testo-musica non si limitava ad una coordinazione di accenti. Di regole per comporre e interpretare ce n’erano centinaia; furono raccolte in un volume dal titolo “Teoria degli affetti” (la parola "affetti" stava per espressioni). Molte di quelle regole possono considerarsi ancora valide ai giorni nostri. 

La rivalutazione, ideata e messa in opera dai monteverdiani, aveva portato il connubio testo-musica ad una valenza espressiva di grande e rara efficacia. Ben presto qualcuno pensò che questa valenza bastasse per dare alla Musica una sua autonomia. Che bisogno c’era di ascoltare anche parole? E fu così che nel XVI secolo nacque - era la prima volta - la musica strumentale. Saranno passati circa 500 anni da quel tempo, chi se ne ricorda più? Eppure varrebbe la pena, ogni tanto, di rammentarsene. In verità, alcuni musicologi preferiscono non tenere conto dell’antica coesistenza, considerando la musica strumentale come arte a se stante, autosufficiente. Così facendo, però, si cancella una parentela accertata storicamente, si nega che Poesia e Musica hanno lo stesso DNA.

Scommetto che adesso qualcuno dirà:

Ma che c’entra tutto questo con il bel suono?

C’entra, c’entra. Ve ne accorgerete alla prossima puntata.

 
 

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