Non dimenticherò mai quegli anni passati in comunione con i miei allievi. Ricordo che tenevo settimanalmente due lezioni antimeridiane e due pomeridiane. Queste ultime mi causavano non pochi problemi. Alle 19:45 suonava la campanella che segnalava la fine delle lezioni; tutti dovevamo uscire.

Quasi a farlo apposta, quella stridula campana mi coglieva sempre nel mezzo di una lezione importante; e mi seccava non poco il fatto di doverla interrompere bruscamente. Ne parlai con Nino Rota, nostro direttore, il quale non ebbe alcuna esitazione nel concederci il permesso di rimanere a scuola anche dopo le 20. Ai bidelli preoccupati disse, rassicurandoli: “Niente paura, tanto di sera nel Conservatorio ci sto anch’io” (Rota, infatti, da tempo aveva scelto come dimora la stanza della Direzione; un semplice lettino, accostato al muro tra il pianoforte e la scrivania, gli fungeva da giaciglio). E così potemmo – finalmente! – rimanere in classe senza più vincoli d’orario. Mentre noi suonavamo, sopra, Rota componeva, sotto, senza sentirsi in alcun modo disturbato dalle nostre esecuzioni che fino a tarda sera si espandevano per tutto il Conservatorio. A volte saliva a trovarci. Com’era solito fare, bussava lievemente alla porta, la socchiudeva di quel tanto che bastava per introdurvi la testa, il viso sempre improntato al più dolce dei sorrisi e: “Permesso?” entrava, ma non prima che avessimo pronunciato “Avanti”. E lui a me affettuosamente: “Ma non ti pare di averli tormentati abbastanza per oggi, poveri ragazzi? Che ne direste di andare a mangiare qualcosa tutti insieme? “Siiii!” risposta in coro. Ci voleva un attimo per sbaraccare tutto e trasferirsi al “Gatto verde”, nostro ristorante abituale. Naturalmente, questo era sottinteso, eravamo ospiti suoi. Sempre! Che tempi, ragazzi! Ma tutto passa, purtroppo. Nel 1977 avvennero, nel giro di pochi giorni, fatti che mutarono radicalmente il percorso della mia vita: Nino Rota ci lasciò per andare in pensione e, quasi contemporaneamente, io ricevetti una nomina ministeriale per la direzione del Conservatorio di Cosenza. Accettandola dovevo abbandonare la classe (conservandone la titolarità), che sarebbe stata assegnata a supplente. Fui molto combattuto prima di decidere; avevo in classe 17 allievi, tutti di buon livello, tra i quali spiccavano i nomi di Benedetto Lupo ed Emanuele Arciuli; pensare di lasciarli nelle mani del primo venuto francamente non mi andava giù. Alla fine trovai un accordo col nuovo direttore Giovanni Antonioni (anch’egli era un mio ex allievo). Insieme con lui, tenuto conto che l’incarico ministeriale sarebbe durato solo un anno, decidemmo di smembrare il gruppo trasferendo i singoli ragazzi nelle classi di quei docenti che erano già stati miei allievi (Camicia, Ceci, Ferrari, Goffredo, Valente, ecc.), nel rispetto di una “continuità didattica”. Questa soluzione offriva i seguenti vantaggi:

1 - evitava traumi psicologici, causati da probabile radicale mutamento di metodologia didattica;

2 - garantiva il ricompattamento del gruppo nella classe d’origine, al mio ritorno in sede;

3 – mi consentiva di continuare e seguire i ragazzi saltuariamente, sia pure in forma privata.

In principio la cosa funzionò abbastanza bene; ricordo che un paio di volte al mese incontravo gli allievi più grandicelli in un locale che mi avevano prestato, i più piccini andavo a trovarli a casa. Col passare del tempo, però, questa situazione divenne sempre più difficile da gestire. Dovetti rimanere direttore a Cosenza per quattro lunghi anni; e quando, infine, si crearono le condizioni a me favorevoli per assumere la direzione del Conservatorio di Bari, il Ministero mi spedì a Pesaro! Così quegli incontri divennero sempre più radi, fino a cessare del tutto; alcuni di quei ragazzi non li vidi mai più! “E Arciuli?”, mi chiederete. Beh, con Emanuele le cose andarono diversamente. Naturalmente anche lui subì, come gli altri, il trauma del progressivo allontanamento, ma questo, negli anni che seguirono, non bastò per scalfire, sia pure in minima parte, il suo rapporto devoto e affettuoso coll’antico maestro. Certo gli incontri erano rari, ma che importanza aveva? Mi veniva incontro gioioso, mi parlava, mi parlava, mi metteva al corrente delle sue cose, mi chiedeva consigli. Una volta mi telefonò per dirmi che era intenzionato a prendere alcune lezioni dal Maestro Vitale; prima di farlo, però, chiedeva il mio consenso! Consenso accordato! Seguivo la sua crescita con attenzione e non finiva mai di stupirmi con le sue idee. Un giorno, solo qualche anno fa, me lo ritrovai davanti a Pescara. Voleva assolutamente che ascoltassi un nuovo pezzo che avrebbe dovuto eseguire in concerto qualche giorno dopo. Acconsentii volentieri e lui attaccò a suonare; si trattava di un pezzo contemporaneo americano, irto di difficoltà paurose. E mentre lui si accaniva su quel brano orribile – non mi sarebbe mai venuto in mente di studiarlo – non mi riusciva, comunque, di non restarne “affascinato”. Affascinato dalla serietà d’intenti che trapelavano da quell’esecuzione, dall’estrema, indiscutibile “sincerità” dell’interprete. Rimasi inchiodato alla sedia per una buona mezz’ora. E quando, alla fine, mi scappò un: “BRAVO EMANUELE!”, ero sincero anch’io!

FINE

 

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