Qualche mese dopo il mio arrivo a Pesaro, l’Orchestra Filarmonica Marchigiana mi offrì l’incarico di Direttore Principale, che mantenni per oltre un decennio. Si trattava di un complesso ad organico medio, nel quale suonavano molti docenti del Conservatorio “Rossini” insieme a giovani validi strumentisti. Organizzata in cooperativa e sostenuta a livello provinciale e regionale, l’orchestra ambiva al riconoscimento ministeriale, per fruire anche del contributo statale; per poterlo ottenere, tuttavia, occorreva documentare un’attività artistica effettuata per un periodo non inferiore ad almeno sei mesi di ciascun anno solare. Detta attività, poi, era valutata in sede ministeriale sulla base di parametri proporzionali, nei quali si teneva conto del numero dei concerti, della qualità artistica degli stessi e delle loro repliche effettuate anche in altre sedi, secondo una politica ritenuta altamente efficace per la divulgazione della cultura. In altri termini: dopo aver eseguito un programma, l’orchestra lo replicava anche per sette od otto volte di seguito in ambito regionale. Le Marche avevano la fortuna di possedere Teatri di notevole valore: il Rossini a Pesaro, il Pergolesi a Jesi, il dell’Aquila a Fermo; e poi quelli di Macerata, Tolentino, Fabriano, Camerino, San Severino. A volte, in mancanza di teatri, si suonava in grandi sale o nelle chiese. Difficile, adesso, ricordare le decine, le centinaia di concerti che diressi in quegli anni, a capo di una compagine che si era andata via via sempre più affermando non solo in ambito regionale. Infatti, l’orchestra sosteneva una regolare programmazione di concerti a Riccione e partecipava alle finali dei Concorsi pianistici di Osimo e di Senigallia; un anno suonò a Terni, accompagnando Paola Bruni nel concerto-premio da lei ottenuto al Concorso Casagrande. Ricordo, inoltre, le splendide produzioni con solisti di grido: i pianisti Aldo Ciccolini e Boris Petrushansky, i violinisti Boris Belkin e Pierre Amoyal, il sassofonista Federico Mondelci e tanti altri che ora mi sfuggono.
Durante l’estate l’orchestra veniva scritturata abitualmente per la stagione lirica allo Sferisterio di Macerata; poiché si trattava di spettacoli all’aperto era necessario aumentare l’organico del complesso, specialmente nel settore degli archi. Riguardo a questi ultimi la Filarmonica Marchigiana aveva optato per un criterio selettivo molto oculato: invece di scegliere, uno per uno, gli elementi indispensabili all’ampliamento dell’organico (oltre una cinquantina, in genere), preferiva importare dalla Romania l’intero blocco degli archi di una orchestra sinfonica di buon livello. In verità, la scelta d’accorparsi ad un gruppo compatto straniero garantiva che l’affiatamento dell’intero organico orchestrale avvenisse in tempi brevi, a tutto vantaggio della qualità artistica. Va sottolineato, inoltre, che al sopraggiungere dell’estate, anno dopo anno, era sempre lo stesso gruppo rumeno di archi (mi pare che venisse dall’orchestra sinfonica di Iaşi) ad essere invitato; e così finì per diventare di casa. Di solito, terminata la stagione lirica di Macerata verso la metà d’agosto, restava ancora in Italia fino a tutto settembre, partecipando ai programmi sinfonici dell’orchestra Filarmonica Marchigiana la quale, così rinforzata, era in grado di affrontare e realizzare con successo un repertorio scritto per grandi organici.
Fu proprio in uno di questi periodi – esattamente tra la fine d’agosto e l’inizio di settembre del 1987 – che l’orchestra venne invitata ad Imola da Franco Scala per partecipare alle serate conclusive di “Incontri col Maestro”, i corsi di perfezionamento estivi dai quali avrebbe preso vita in seguito la nota Accademia. Si trattava di due programmi interamente dedicati al Concerto per Pianoforte e Orchestra, nei quali il ruolo di solista era affidato agli stessi docenti dei corsi: nel primo c’era Georgy Sandor, impegnato nei due Concerti di Liszt, nel secondo spiccavano appaiati Alexander Lonquich nel Concerto di Schumann e Sergio Fiorentino nel 3° di Rachmaninov.
Completavano i due programmi l’Ouverture da “Il Barbiere di Siviglia” di Rossini e quella de “La grotta di Fingal” di Mendelssohn.
Con Sandor provammo per una giornata intera e tutto sembrò filare liscio, ma al concerto, ahimé, le cose non andarono così; il pianista era già molto avanti negli anni e accusava qualche cedimento, non solo meccanico ma soprattutto nella lucidità e nella memoria. Ricordo che nel terzo movimento del primo Concerto di Liszt attaccò un quarto prima, proprio in un momento molto complicato per gli interventi orchestrali e non ci fu verso di riprenderlo; non mi rimase che contare quante misure mancassero per arrivare alla fine dell’episodio… il Teatro traboccava di pubblico (in maggioranza pianisti) e tanti, alla fine del concerto, vennero nel mio camerino a complimentarsi e a chiedermi stupefatti come avessi potuto stare dietro a quel matto!
Soltanto Rattalino non trovò nulla di strano e si limitò a dirmi che Sandor gli era apparso un interprete un po’ “yankee”...
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